L’artista olandese Hellen van Meene da quasi trent’anni fotografa prevalentemente bambine in età puberale e adolescenti, confermando l’interesse degli esordi per le trasformazioni soprattutto fisiche che interessano una certa fase dello sviluppo. Ha girato i continenti alla ricerca dei suoi modelli viaggiando in Europa, Russia, Giappone, Nord Africa eppure non esiste nessuna coordinata sociale o geografica che consenta di possedere i codici utili a penetrare nelle diverse storie private: le sue ragazze sono ritratte in un’atmosfera sospesa nello spazio e nel tempo, avvolte da una luce naturale che sottolinea la fragilità tipica dell’età dell’inesperienza, e nel tutto ‘atemporale’ messo in scena da van Meene il tempo sospeso dell’adolescenza acquista tinte a tratti inquietanti.
L’artista analizza con delicatezza il turbamento che nasce quando il corpo cambia senza che ci sia consapevolezza dei processi che segnano il passaggio dall’infanzia alla pubertà all’adolescenza. I ritratti mostrano bambine che sembrano giocare ad essere donna, bambine che, con le scarpe dai tacchi alti o una sottoveste da piccola sposa, paiono non avere altro desiderio che crescere. Eppure, dietro il rossetto o un capo di biancheria ricamata di malizia, traspare solo la bambina intimidita, che non saprebbe proprio come vivere la vita di adulta.
L’osservazione di van Meene si riversa in un’ampia serie di immagini ricche di poesia, che lasciano però nello spettatore un profondo turbamento: la scena in cui le ragazze sono collocate per interpretare il loro piccolo, silenzioso copione è un ambiente ‘quotidiano’, eppure niente è usuale, né lo scarno mobilio, né le stanze, neppure la collocazione all’aria aperta: le modelle – raramente l’artista ritrae ragazzi – sembrano bambole senza vita, manichini messi in posa con studiata ricerca dell’effetto, che risulta spesso drammatico per il contrasto tra l’apparenza di vita adulta e le forme della pubertà, la ricercata seduzione e l’evidente immaturità, la presenza sgargiante del trucco e il livido colore della pelle.
I ritratti sono realizzati secondo i canoni estetici del genere (inevitabile individuare i maestri nella grande scuola olandese del XV secolo), ma non ne possiedono la finalità, né pubblica né privata: anziché costituire la valorizzazione del singolo individuo, degno di essere ritratto per lo status economico e sociale che lo colloca nelle sfere privilegiate della comunità, sono piuttosto archetipi di problemi tipici dell’adolescenza, come la malinconia, la solitudine, il complesso di inadeguatezza, la mutevolezza, l’ansia unita alla paura di crescere: penso a “Pubertà” di Munch, con l’immensa ombra nera proiettata sul muro che sembra presagire gli eventi di un destino inevitabile e opprimente di moglie e di madre, ma mentre nell’opera dell’artista norvegese la nudità è vissuta come una vergogna, dai ritratti di van Meene emerge soprattutto il compiacimento delle modelle di essere anche solo per poche ore nella lente indagatrice dell’artista, di compiere, forse inaspettatamente, i primi passi nel mondo adulto. Sono evidenti le connotazioni relative ai ‘luoghi comuni’ che tipizzano la donna nella società borghese, come se non fosse neppure esistito il movimento di emancipazione dai condizionamenti che vedono la donna realizzata solo nel suo essere oggetto dell’interesse (erotico) dell’uomo.
Al di là della vicenda biografica di ciascuna, dunque, conta il tempo di trasformazione che la ragazza sta attraversando, contano i tratti ‘tipici’ dell’età che fino a pochi decenni fa veniva definita ‘ingrata’, ed è proprio per questa dimensione archetipica che van Meene lascia senza titolo le opere in cui il nome delle ragazze è oscurato non per privacy ma per il valore assoluto che ogni immagine incarna. Scomparse Anne, Charlotte, Helga, scomparsa la singola storia privata di ognuna, restano la malinconia e l’imbarazzo, la civetteria e l’ostentata sicurezza, restano tutte le sfaccettature di un’età così complessa e cangiante.
In equilibrio tra realtà e finzione, l’artista le osserva crescere con tale interesse, che arriva a fotografare di nuovo, ripetutamente, negli anni successivi le stesse bambine che aveva colto nell’attimo della promessa.
E si può credere che il lavoro di van Meene sia un paziente studio del tempo come dimensione che muta, evolve e raggiunge una massima tensione, uno studio del tempo come un lento cammino verso l’esito finale, dipanato lungo un percorso di cui all’artista preme soprattutto fissare il momento dell’incerto esordio nella giovinezza.
Il piccolo formato delle fotografie colloca la galleria di ritratti in una dimensione domestica, familiare, che genera nello spettatore la sensazione di entrare in una sfera intima, di cui solo a pochi è consentito l’accesso: ma presto è destabilizzato, perché questi non sono certo ritratti che i genitori delle modelle potrebbero esporre sul caminetto del salotto per mostrarli agli amici e ai parenti; sono piuttosto segreti che una madre terrebbe nascosti in un cassetto, come tutto ciò che cela un enigma, forse perfino una sofferenza che non deve essere esibita.
Van Meene, costruendo un set che sottrae le modelle al loro ambiente familiare, dà alle immagini validità assoluta e le bambine, sottratte alle madri attraverso la fotografia, nate di nuovo nelle mani dell’artista, possono rappresentare temi e spunti di riflessione validi per tutti.
Le bambine di van Meene sono piccole donne che abitano una casa desolata dai muri sgretolati o vivono in un’estate senza calore, dove l’unico colore è la tinta accesa del vestito, della tela che avvolge il corpo, del rossetto, elementi caratterizzanti del femminile che però non sanno suggerire la vita. Potresti trovare le piccole adolescenti per strada o in un povero interno domestico, comunque avulse dalla realtà di amicizie, scuola e attività del tempo libero in cui dovrebbero essere calate. Van Meene le separa dalla loro esistenza di ogni giorno e le rappresenta come l’icona di uno stato d’animo.
Le ragazze sono immobili, come insensibili a tutto, senza reazione e senza ribellione, non perché lo richieda l’occhio della macchina fotografica, ma perché non sembrano possedere una vita verso cui urlare la loro ribellione. Esistono, impassibili e passive, apparentemente incapaci di comunicare al punto che raramente guardano nell’occhio della macchina fotografica.
Le immagini ritagliano scene costruite con sapienza e tecnica, dove niente è lasciato al caso e tutto è sotto controllo vigile e scrupoloso. Alcune fotografie sembrano rappresentare un gioco di travestimenti per una insolita esperienza teatrale senza pubblico, ma è un gioco che non fa sorridere. Altre potrebbero essere rubate alla cronaca, quella più terribile che parla di emarginazione, povertà e violenza.
Resta la sensazione che le bambine abbiano corpi che non fioriranno, che sfioriranno senza fiorire nonostante l’ombretto, lo smalto e il rossetto alludano al loro futuro di donna. Sembrano senza madre, senza sorelle e senza amiche, sembrano vivere da sole dentro case abbandonate, situazione che consente all’artista di lavorare sull’adolescenza come concetto assoluto, senza condizionamenti. Difendono il corpo con le braccia o mostrano senza vergogna piccoli seni innocenti. Non è l’obiettivo della macchina fotografica che le sta violando: tutto il pudore è impegnato a non mostrarti l’anima. Non vogliono ammirazione, desiderano attenzione mentre indossano biancheria preziosa con gli occhi vuoti e il corpo di pietra nella loro infanzia perduta, mentre giocano a vivere una vita da Barbie di provincia. E se molte ragazze non sono ‘belle’ secondo i canoni dell’estetica classica, van Meene con un atto di pietas gentile ha il coraggio di accarezzare con la sua arte l’enigma di un corpo fragile, l’imperfezione, la genetica ribelle, un volto che nessuno sceglierebbe per la pubblicità: è un gesto di amore nel significato più alto. È rispetto della difficoltà, della solitudine e dell’impotenza.
Con spiccata sensibilità formale l’artista trae dalla tradizione della pittura classica olandese ogni elemento utile alla rappresentazione che intende mettere in scena, adottando con maestria l’uso della luce che evidenzia il centro di maggior interesse. Sui corpi eterei o tristemente carnali scende una luce ferita che, attraversando tagliente l’ambiente, diventa una carezza.
Rispetto alla scuola dei maestri, van Meene si muove con libertà totale rispetto alla scelta della posa, spesso decisamente inusuale se si considerano le regole della ritrattistica europea. E anche se le immagini sono costruite nei dettagli con eleganza formale tipicamente olandese, anche se l’angolazione e l’inquadratura sono frutto di scelte mirate, l’artista non indugia mai nel perfezionismo, non cede a forme manieristiche perché è più forte l’urgenza di catturare la sintesi di trasformazione, difficoltà e impotenza che vuole rappresentare.